Due giorni si erano consumati nel silenzio febbrile dell'appartamento di Scandicci, due giorni scanditi solo dal ronzio incessante dei server nello studio di Luca, dal mormorio discreto delle comunicazioni digitali e dalla tensione palpabile che avvolgeva i tre scienziati. L'aria era intrisa di un misto di stanchezza e attesa, gli occhi di Vittorio affaticati ma vigili, quelli di Valentina concentrati su ogni dettaglio, mentre Luca, pallido per le poche ore di sonno, si muoveva tra gli schermi come un direttore d'orchestra nel suo teatro di codice e silicio. Finalmente, nel cuore della notte, il ritmo computazionale dei server cambiò. Le ventole diminuirono la loro frenesia, e sugli schermi, i complessi pattern astratti che l'IA stava generando iniziarono a convergere, a condensarsi in qualcosa di più strutturato, un output finale. Luca, che si era appisolato sulla sedia, si ridestò di soprassalto, il suo respiro che si faceva affannoso mentre fissava i monitor. Valentina si sporse in avanti, i suoi occhi scuri che riflettevano la luce fredda dello schermo, mentre Vittorio si alzò in piedi, il cuore che gli martellava nel petto con violenza sorda. Era arrivato il momento della verità.
L'IA non parlava, non proiettava immagini evocative di mondi lontani o cataclismi imminenti, come Vittorio aveva inconsciamente temuto. Invece, sui monitor apparvero grafici e tabelle di una complessità disarmante, ma accompagnate da una serie di conclusioni formulate in un linguaggio conciso, quasi clinico, che andava dritto al punto con la spietatezza logica di una mente artificiale. Le prime frasi che Luca decifrò fecero sgranare gli occhi a Vittorio e Valentina, e a lui stesso. Il modello di IA aveva analizzato la risonanza quantistica sotto la Cupola, le firme energetiche aliene, i pattern che avevano suggerito a Vittorio l'idea dei varchi dimensionali, e aveva raggiunto una conclusione radicalmente diversa. Non si trattava di un punto di contatto tra universi paralleli, di strati di realtà sovrapposti che si toccavano. Ciò che l'IA aveva identificato era una distorsione nel tessuto stesso dello spazio-tempo, una sorta di piega, un'instabilità primordiale che non portava "lontano" in altre dimensioni, ma "indietro" o "avanti" nel continuo temporale. La risonanza agiva non come un diapason che accordava mondi, ma come un meccanismo che permetteva il salto o l'interazione con istanti differenti nel flusso del tempo. Era un varco... ma temporale. Le implicazioni di quella rivelazione calarono sulla stanza come un macigno: non universi alieni da esplorare o da cui difendersi, ma il tempo stesso, con tutte le sue paradossali complessità e i rischi inimmaginabili di alterare la storia, ora accessibile, o peggio, vulnerabile, sotto il monumento più iconico di Firenze. La paura di Vittorio non era svanita, si era solo trasformata, assumendo contorni ancora più agghiaccianti.
Gli occhi di Luca, dietro gli occhiali spessi, erano un misto di terrore e stupore reverenziale per la potenza e la spietatezza logica del suo modello, mentre Valentina fissava lo schermo con un'intensità febbrile, la sua mente acuta che già cercava di afferrare le implicazioni di un'anomalia temporale sotto il simbolo per eccellenza della storia fiorentina. Non c'era tempo per elaborare lo shock, per la paura che si trasformava, per le implicazioni filosofiche o fisiche complete. La scadenza imposta da De Santis incombeva, e ora, più che mai, sentivano il bisogno impellente di essere sul posto, accanto a quella vibrazione primordiale, per capire, per sentire, per tentare di interagire.
La decisione fu presa con uno scambio di sguardi, un tacito accordo intessuto di urgenza e di una disperazione che non lasciava spazio a convenzioni. Non potevano affrontare la burocrazia, non potevano chiedere permessi formali per indagare una "lacerazione temporale" – sarebbero stati fermati, etichettati come folli, o peggio. La verità doveva rimanere segregata tra loro tre. Compattarono rapidamente i dati cruciali, trasferendo i file più significativi su dispositivi portatili ultra-criptati, mentre Luca disconnetteva e metteva in sicurezza l'IA, lasciandola in uno stato di quiescenza protetta, pronta per future analisi. Non portarono molto, solo l'essenziale: laptop potenziati, sensori portatili, strumenti di diagnostica quantistica miniaturizzati – tutto ciò che poteva aiutarli a interagire più direttamente con il punto di risonanza, ora sapendo di cercare fluttuazioni non spaziali, ma cronologiche. Lasciarono l'appartamento di Luca prima dell'alba, muovendosi silenziosi per le strade ancora spoglie di Scandicci, portando con sé il peso di una scoperta che riscriveva non solo la fisica, ma l'essenza stessa della realtà, diretti verso il cuore antico di Firenze, verso la Cupola che ora non era più solo un monumento alla genialità umana, ma un involontario testimone e catalizzatore di un fenomeno che poteva distruggere il tempo stesso.
Il viaggio di ritorno verso il centro fu compiuto nell'ombra discreta delle prime luci dell'alba, la tramvia autonoma che li trasportava attraverso un paesaggio suburbano che lasciava gradualmente il posto ai profili più storici e maestosi della città. Ogni edificio rinascimentale che scorreva oltre i finestrini sembrava carico di un nuovo, inquietante significato, testimone silenzioso di epoche che ora, potenzialmente, potevano essere toccate, o alterate. Giunti vicino al Duomo, si mossero con circospezione, la conoscenza della vera natura del sito conferiva a ogni passo un senso di audacia clandestina. Accedere allo scavo sotto l'altare maggiore richiese l'uso dei loro badge di sicurezza di alto livello, ignorando consapevolmente i protocolli standard che prevedevano la presenza di personale di supporto e la registrazione dettagliata di ogni attività. L'aria nel sito era fredda e immobile, intrisa dell'odore umido della pietra millenaria e del metallo sottile degli strumenti di ricerca. Ma ora, il silenzio non era solo quello assorbente dell'area protetta; era carico di un'attesa quasi elettrica, la presenza invisibile del varco temporale che si sentiva non come un luogo "altro", ma come una distorsione sottile e potente nel qui e ora. Sotto la vasta e silenziosa presenza della Cupola, che li sovrastava con il suo respiro di pietra, iniziarono a sistemare i loro strumenti portatili, preparandosi a sondare l'abisso del tempo che si apriva sotto i loro piedi, una sfida contro la fisica, la storia e una scadenza che si faceva sempre più pressante.
La mattina al liceo Scientifico Leonardo Da Vinci di Firenze, l'aria era solitamente carica di quel mormorio indistinto tipico delle scuole prima del suono della campanella, un tessuto sonoro intessuto di voci giovanili, risate soffocate e il cliccare sommesso delle interfacce digitali. Studenti con i loro visori trasparenti appoggiati sulla fronte o già attivi, proiettando interfacce olografiche nell'aria, si muovevano per i corridoi luminosi, illuminati da pannelli LED che simulavano la luce naturale. Navette autonome, silenziose e discrete, depositavano gli ultimi ritardatari davanti all'ingresso futuristico. Ma quel giorno, non appena Giulio varcò la soglia del portone principale, percepì una corrente sotterranea di sussurri e sguardi puntati verso di lui. L'atmosfera era cambiata, intrisa di un'inquietudine diversa dal solito, fatta di curiosità morbosa e divertimento malcelato. Mentre attraversava il corridoio principale, le voci si fecero più distinte, i frammenti di frasi gli arrivarono addosso come schegge: «Guarda, è quello che c'ha il portale!» urlò qualcuno dall'angolo, un grido subito seguito da un coro di risatine e commenti sarcasticamente entusiasti. «Eh, Giu'! Come va nel terzo livello? Hai incontrato gli alieni sotto al Duomo?» gli gridò un altro, echeggiando le parole che Massimo aveva usato la sera prima con derisione. Il sangue gli salì al viso in un istante, non solo per l'imbarazzo cocente di essere al centro di quella crudele attenzione, ma per la rabbia e il senso di tradimento che gli strinsero lo stomaco in un nodo gelato. Il suo segreto, il peso che lo stava schiacciando e che aveva osato condividere con un amico in cerca di comprensione, era stato trasformato in uno stupido scherzo, una parodia triviale delle sue paure più profonde e dell'enormità della scoperta di suo padre.
Non era solo il ridicolo; era il modo in cui le loro parole, intessute di gergo da gamer, di riferimenti a mondi virtuali e di un cinismo adolescenziale appreso troppo in fretta, sminuivano l'enormità della minaccia che sentiva incombere sulla sua famiglia e sulla sua città. Ogni 'glitch', ogni 'level design', ogni 'boss finale' che gli lanciavano addosso con un misto di scherno e genuina confusione era un pugno nello stomaco, perché sapeva che sotto quelle battute si nascondeva una realtà ben più terrificante e incontrollabile di qualsiasi gioco virtuale che avesse mai affrontato. Cercò con gli occhi Massimo tra la folla che si diradava verso le aule, e lo trovò appoggiato a un armadietto poco distante, lo sguardo basso o forse fisso su uno schermo invisibile proiettato dal suo visore, l'aria di chi non vuole essere visto, ma il cui silenzio imbarazzato era una conferma bruciante e definitiva di chi avesse diffuso quella storia distorta. Non partecipava attivamente alle prese in giro, ma il suo non-intervento, il suo distacco, urlava più di mille insulti. Giulio accelerò il passo, stringendo i pugni lungo i fianchi, sentendo gli sguardi addosso come aculei gelidi conficcati nella pelle. Il corridoio del liceo si era trasformato in un tunnel di isolamento, un luogo ostile dove la sua angoscia più intima era diventata materiale per la derisione, e il peso del varco sotto il Duomo, per quanto ridicolizzato e sminuito dalle parole dei suoi compagni, era diventato anche il peso schiacciante della sua solitudine incompresa.
(Continua nei prossimi post)
Nessun commento:
Posta un commento