Vittorio rincasò che le prime luci dell'alba stentavano a farsi largo tra i palazzi. L'aria nell'attico era calma, quasi irreale nella sua quiete dopo la notte trascorsa nello studio saturo di tensione e dal ronzio incessante dei server di Luca e la mattina tra gli strumenti del sito sotto la cupola. Ogni muscolo gli doleva, le spalle erano curve sotto un peso che non era solo fisico e gli occhi verdi dietro gli occhiali bruciavano per la stanchezza, riassumendo nel loro sguardo opaco le ore febbrile passate a cercare di decifrare il verdetto dell'IA, quel terribile sussurro di un varco non spaziale ma temporale. Lasciò cadere la giacca leggera sulla poltrona con un sospiro che sembrava prosciugarlo delle ultime energie e si incamminò a passi lenti verso il salotto, attratto dal bagliore discreto che filtravano sotto la porta socchiusa. Trovò Eloisa seduta sul divano, avvolta in una coperta sottile, non dormiva; il suo sguardo marrone, appena lo vide, si accese di una preoccupazione che le solcava la fronte. "Vittorio... sei tornato," mormorò, la sua voce era un filo teso nell'aria immobile. "Hai passato un'altra notte lì, vero?" Non era una domanda, ma una constatazione dolorosa della sua assenza, una conferma di quanto fosse assorbito da quel segreto che, seppur ora in parte condiviso, continuava a tenerli lontani. Lui annuì, incapace di trovare parole più adatte a descrivere l'abisso che aveva sondato e l'ansia che lo attanagliava. "Sì," rispose semplicemente, la voce rauca per la stanchezza. "Siamo... abbiamo lavorato sui dati. È stata una notte lunga e pesante." Tutto il suo essere urlava il bisogno primordiale di riposare, di spegnere la mente che girava ancora vertiginosamente attorno a cronologie alterate e scadenze inesorabili. "Sono a pezzi, Eloisa," aggiunse, un'ammissione che suonava quasi come una preghiera. "Ho bisogno di... di dormire. Solo qualche ora."
Eloisa si scostò leggermente per fargli posto sul divano, lo spazio tra loro colmato da un'affezione silente ma anche da un muro invisibile di segreti e timori. Mentre lui si lasciava cadere pesantemente sulla seduta, la sua espressione si fece ancora più seria, le sue mani si strinsero tra loro con un gesto nervoso. "Vittorio, c'è qualcosa che non va," disse, la sua voce bassa ma carica di un'inquietudine che non riguardava solo la sua stanchezza o il progetto. "Giulio," esitò per un istante, gli occhi marroni che cercavano i suoi, carichi di angoscia materna. "L'ho sentito nella sua stanza. Piangeva." La notizia lo colpì come un fulmine inatteso, la stanchezza che per un attimo svanì sostituita da un'ondata di allarme paterno. Giulio? Piangeva? Il loro Giulio, solitamente così immerso nel suo mondo digitale, apparentemente imperturbabile alle tensioni adulte. "Piangeva?" ripeté, con voce sorpresa e improvvisamente attenta. "Ma... perché? Cos'è successo?" Eloisa scosse la testa, il suo viso pallido. "Non lo so. Non ha voluto dirmelo. Gli ho chiesto, ma si è chiuso. Ha solo detto che... che aveva parlato con Massimo, che era una cosa stupida. Non ho insistito, pensavo fosse... non lo so, un litigio da ragazzi per i loro giochi ologrammatici." La sua voce era un sussurro, intessuta del rimpianto di non aver indagato più a fondo. Ma gli occhi di Vittorio si erano improvvisamente spalancati, una terribile, fredda intuizione che gli si insinuava nella mente, perforando la nebbia della stanchezza. Massimo. Giulio che piangeva. Il varco. La sera prima, l'aveva sentito parlare con Eloisa del progetto, del varco, della paura. Aveva sentito tutto? E aveva osato parlarne con Massimo? La possibilità che il suo segreto cosmico, il peso che stava distruggendo la sua vita, avesse in qualche modo ferito suo figlio in modo così profondo, lo ghiacciò fin dentro le ossa. Il riposo, per un attimo così desiderato, sembrava ora un lusso irraggiungibile. Il peso del mondo e degli universi paralleli era improvvisamente diventato il peso schiacciante e immediato del dolore incompreso di suo figlio.
Il riposo fu breve e inquieto, una concessione strappata a malincuore alla stanchezza. Vittorio si svegliò dopo un paio d'ore, i muscoli ancora indolenziti, la mente non meno affollata di prima. Nello studio di Luca, l'IA aveva parlato di tempo, non di spazio, un concetto che lo spaventava ancora più a fondo; ma qui, nell'attico di Coverciano, era il pensiero delle lacrime di Giulio a stringergli lo stomaco. Non poteva ignorare quel dolore, quella confusione nel figlio. Alzarsi fu uno sforzo, ma la determinazione, alimentata dalla paura e dal senso di colpa, era più forte della stanchezza. Trovò Eloisa nel salotto, lo sguardo marrone che lo attendeva con la stessa inquietudine che aveva lasciato poche ore prima.
Si sedette accanto a lei, il silenzio tra loro rotto solo dal ronzio sommesso di una lavatrice. "Eloisa," iniziò, la voce bassa ma ferma, "devo parlare con Giulio. Subito." Prese un respiro profondo. "Ho il forte sospetto che abbia sentito qualcosa. Non posso lasciarlo così, con dei pezzi di verità assurda e spaventosa che non capisce. Se ha sentito qualcosa, è giusto che sappia. Non tutta la portata, forse, ma abbastanza per dargli un contesto, per non lasciarlo solo nella sua paura o nella sua fantasia. Non voglio che questo segreto lo schiacci come sta schiacciando me, o che si senta tradito o spaventato da ciò che non capisce." Eloisa annuì lentamente, la sua mano che si posava sulla sua, un gesto di tacito accordo. "Hai ragione," mormorò, la sua voce un sospiro. "Non merita questa confusione. Vai. Parla con lui."
Vittorio si avvicinò alla stanza di Giulio a passi lenti, esitando un istante prima di bussare piano alla porta socchiusa. L'interno era immerso in un'atmosfera soffusa creata dalla luce modulata del soffitto e dai bagliori discreti degli schermi spenti o in modalità riposo che punteggiavano l'ambiente. Giulio era sdraiato sul letto, vestito, gli occhi chiari fissi sul soffitto che proiettava una nebulosa digitale, l'immagine di un cosmo lontano e astratto che contrastava in modo stridente con l'abisso invisibile che si agitava sotto la città. Sembrava rimpicciolito, la sua usuale energia adolescenziale completamente assente, sostituita da una quiete innaturale che preoccupò Vittorio più di qualsiasi scatto d'ira. Vittorio si sedette con cautela sul bordo del letto, sentendo la resilienza elastica del materasso intelligente sotto il suo peso, e gli posò una mano sulla spalla, un contatto fisico semplice ma carico di una comunicazione non verbale fatta di affetto e apprensione. "Giulio," disse piano, la sua voce roca per la stanchezza e la tensione, "la mamma mi ha detto che... che non stai bene." Fece una pausa, cercando le parole, decidendo di andare dritto al punto che lo assillava da quando Eloisa gli aveva parlato. "Hai sentito qualcosa? Quando... quando parlavamo io e la mamma?" Giulio annuì lentamente, il suo sguardo ancora perso nella nebulosa proiettata, un movimento quasi impercettibile ma che confermò la paura più grande di Vittorio.
Il respiro di Vittorio si bloccò per un istante. La conferma, seppur muta, era un macigno. Prese un altro respiro, cercando di trovare il giusto equilibrio tra la verità e la protezione. "Ascolta, Giulio," iniziò, la voce più ferma, intessuta di una serietà che il figlio raramente gli sentiva usare, "quello che hai sentito... è vero. Non tutto, forse. Non so quanto hai capito. Ma sì. Il progetto su cui sto lavorando sotto il Duomo... non è solo un progetto sull'energia." Scelse con cura le parole. "È qualcosa di molto più strano, più grande. È una scoperta che sta mettendo in discussione tutto quello che sapevamo sulla fisica, sulla realtà stessa. C'è... c'è un fenomeno lì sotto che non riusciamo ancora a spiegare del tutto, qualcosa che ha a che fare con la struttura più profonda dello spazio e del tempo. È... delicato. E potenzialmente pericoloso." Vide gli occhi chiari di Giulio spostarsi dalla nebulosa sullo schermo e posarsi sul suo viso, ora carichi di una miscela di paura, confusione e un'ombra di quella stessa preoccupazione che aveva visto in Eloisa. "È per questo che sono stato... strano. Assente. Preoccupato. Perché è un peso enorme da portare." Vittorio esitò, poi decise di chiedere, il cuore stretto dall'ansia. "Giulio... ne hai parlato con qualcuno? Con qualche tuo amico?" Il viso di Giulio si contrasse, e annuì di nuovo, questa volta con un movimento più rapido, gli occhi che si abbassavano, tradendo tutta la sua vergogna e la sua ferita. "Sì... con Massimo," mormorò, la voce attutita. E poi le parole uscirono a fatica, cariche di un dolore che andava oltre la semplice rabbia: "Ne ho parlato con lui... ha raccontato quello che avevo sentito. Gli altri... a scuola mi hanno preso in giro. Dicevano... dicevano che mi ero inventato tutto, che era roba da videogiochi, 'portali' e 'glitch'. Come se... come se la mia paura fosse uno scherzo. Massimo lo ha raccontato a tutti" La sua voce si spezzò leggermente sull'ultima frase, rivelando la profondità della sua delusione e del suo isolamento. Vittorio sentì un pugno allo stomaco, il suo segreto sminuito, profanato, e il figlio ferito a causa sua. "Oh, Giulio..." mormorò, stringendogli la spalla. Poi, la sua voce si fece seria, il tono paterno che si mescolava all'urgenza dello scienziato che protegge un segreto pericoloso. "Ascoltami bene, figlio mio. Quello che hai sentito... quello che sta succedendo... non è un gioco. Non è roba per i tuoi amici. Loro non possono capire, Giulio. Sembrerebbe follia. E non è solo che non capirebbero... è pericoloso. Questa cosa... è sensibile. Non devi più parlarne con nessuno. Con nessuno, chiaro? Non con Massimo, non con nessun altro a scuola, non con nessuno fuori di qui. È il nostro segreto. Un segreto che dobbiamo custodire, per la sicurezza di tutti. Perché se si venisse a sapere, se la gente non capisse... potrebbe scatenare il panico. E poi... poi c'è dell'altro. Qualcosa legato al fenomeno stesso. Non posso spiegarti tutto ora, ma devi fidarti di me: parlarne è un rischio. Ti prego, Giulio. Promettimi che non lo farai più." L'ultima frase era quasi un'implorazione, il peso del mondo e degli universi paralleli che ricadeva sulle spalle di un ragazzino di sedici anni, caricato non solo dalla paura dell'ignoto, ma anche dalla delusione di un'amicizia tradita e dalla solitudine imposta dal segreto paterno.
(Continua nei prossimi post)
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