venerdì 1 agosto 2025

Il varco di Firenze - Puntata 8

Giulio si ritrasse lentamente, le parole di suo padre che gli rimbombavano nella testa, un'eco distorta e sinistra. Un peso freddo gli si era posato sullo stomaco, denso e inatteso, più gravoso di qualsiasi interrogazione a sorpresa o di un virus nel sistema. Si mosse in silenzio lungo il corridoio illuminato, ogni passo ovattato dai pavimenti sensorizzati, diretto verso il suo rifugio privato. La sua stanza, un universo personalizzato di schermi interattivi, postazioni per il gaming e visori appesi come trofei moderni, sembrava un bozzolo protettivo, un luogo dove le regole erano le sue e la realtà esterna poteva essere filtrata, modificata, o semplicemente ignorata. Si chiuse la porta alle spalle con un clic discreto, tagliando fuori il suono delle voci dei genitori nel salotto. Ma il silenzio ritrovato non portò sollievo. Era un silenzio pieno, pesante, abitato dai frammenti di conversazione che si erano incrostati nella sua mente come residui digitali di un file corrotto.

Si lasciò cadere sul letto, gli occhi chiari fissi sul soffitto tecnologico che proiettava costellazioni digitali, cercando di assemblare i pezzi di quel puzzle assurdamente inquietante. «Dati sotto il Duomo»... era il progetto del papà, quello che lo teneva lontano, lo rendeva strano, perso nei pensieri. Ma «modello concettuale», «ragiona in modi che a noi sfuggono»... sembrava roba da intelligenze artificiali di un altro livello, quelle di cui si parlava nei forum di hacking più spinti, roba che si spingeva oltre il codice conosciuto. E la paura nella voce del papà, quella che aveva intravisto, non era per i dati complessi o per un esperimento andato storto. Era la paura vera. Quella di cui parlava sua madre. Quella che gli aveva fatto dire «spaventato» e che ora capiva, in modo vago ma terribile. «Che non si aprano completamente...». Aprire cosa? I dati? La risonanza? O qualcosa di... altro? Qualcosa che non doveva aprirsi? L'idea di suo padre coinvolto in qualcosa di così oscuro e fuori controllo, qualcosa che poteva "aprirsi" in modo irreversibile, lo agghiacciava più di qualsiasi scenario distopico che avesse mai visto nei suoi visori. 

Si sentiva vulnerabile, il muro di protezione che il papà aveva sempre rappresentato per lui e la mamma improvvisamente crepato, lasciando intravedere un abisso che non riusciva a nominare. Giulio si mosse verso la sua postazione principale, uno spazio dove la realtà si fondeva con il digitale in un flusso continuo di stimoli. Le mani che sfioravano la tastiera olografica erano leggermente tremanti, un gesto insolito per la sua abituale maestria nel navigare gli universi virtuali. Non poteva tenere tutto dentro. La paura del padre, quella frase sui varchi che non dovevano aprirsi completamente, pesavano sulla sua giovane mente con la gravità di un buco nero. Aveva bisogno di parlare con qualcuno che, anche solo minimamente, potesse capire o almeno ascoltare senza giudicare. C'era solo una persona: Massimo. Nonostante le loro interazioni fossero prevalentemente confinate ai mondi digitali condivisi e ai corridoi del liceo, Massimo aveva un’intelligenza acuta nascosta dietro una facciata introversa e spesso cinica, e soprattutto, non era coinvolto in quel mondo di adulti segreti e paure inspiegabili. Giulio aprì un canale di comunicazione sicuro, selezionando l'avatar colorato del suo amico sullo schermo. L'attesa, di pochi secondi, sembrò un'eternità. Poi, l'immagine di Massimo, con i suoi capelli rossicci scompigliati e la faccia segnata dai brufoli che la risoluzione quasi perfetta della comunicazione olografica non riusciva a nascondere, prese forma nello spazio davanti a lui, seduto nella sua stanza, l'aria di chi è stato strappato da un mondo digitale forse più accogliente.

Massimo lo guardò con l'espressione un po' persa di chi è appena uscito da un’immersione prolungata. "Yo, Giu'," disse, la sua voce che suonava un po' robotica attraverso il filtro del canale. "Che c'è? Tutto ok? Non è che devi dirmi che hai fatto a pezzi il boss finale senza di me, vero? Ero quasi lì!" C'era il solito sarcasmo nel suo tono, il loro codice usuale. Ma Giulio non rispose con una battuta. Si schiarì la gola, cercando le parole giuste, sentendo gli occhi chiari bruciare un po'. "Massi... no," iniziò, la sua voce più bassa del solito, privata della consueta energia adolescenziale. "Senti... devo dirti una cosa. È... è una cosa seria. Molto seria." L'espressione di Massimo cambiò lentamente: il sarcasmo si spense, sostituito da una cauta attenzione. La sua fronte si corrugò leggermente, un segno che aveva colto la gravità inusuale nel tono di Giulio. "Papà... il suo progetto... quello sotto il Duomo," continuò Giulio, e sentì il peso delle parole uscirgli dalla bocca, denso e incontrollabile. "Non è quello che dicono. Non sta cercando energia. Sta succedendo qualcosa di... assurdo. Ho sentito i miei genitori parlare. C'è... c'è un varco lì sotto. Verso altri mondi." La frase gli uscì in un fiato, pura e incredibile, e per un istante, la vide riflessa nello sguardo sbigottito e, contro ogni aspettativa, affascinato di Massimo.

Fu a quel punto che il volto di Massimo si contorse in una smorfia che era metà scherno e metà pura incredulità. Un suono strano, quasi una risata soffocata, iniziò a filtrare attraverso il canale di comunicazione, distorto, innaturale. Poi la sua voce si fece chiara, carica di una derisione tagliente. "Alt! Fermo un attimo, Giu'!" esclamò, appoggiandosi allo schienale invisibile della sua sedia olografica, i suoi capelli rossicci che parevano ribellarsi al suo gesto. "Varco? Altri mondi? Ma che hai fumato? O ti sei bevuto il cervello con troppi energetici di contrabbando?" Scosse la testa, il viso paffuto che si contraeva in un misto di divertimento crudele e palese noncuranza. "Dai, sembra roba da terzo livello di 'Cosmic Breach'! O un nuovo DLC che ancora non so. Tuo padre ha trovato una 'portal gun' sotto il Duomo? O è un 'glitch' nel 'level design' della realtà?" Le sue parole, pronunciate con un tono di sufficienza che a volte assumeva quando voleva nascondere la sua insicurezza o liquidare qualcosa che non capiva, colpirono Giulio come schiaffi digitali. Era la reazione che forse si aspettava, eppure faceva male lo stesso, perché riduceva la sua paura a una sciocca fantasia adolescenziale.

Massimo scosse ancora la testa, l'espressione derisoria che si assestava in una sorta di cinismo stanco, gli occhietti incavati che fissavano Giulio attraverso lo schermo. "Senti, Giu'," riprese, il tono un po' più basso ma non meno dismissivo. "I genitori, specialmente i padri... dicono un sacco di fregnacce. Soprattutto quando sono presi dal lavoro, o da robe strane che non capiscono manco loro. Cercano di darsi un tono, di rendere tutto 'importante'. È il loro modo di sembrare meno... falliti, forse." La sua voce si fece tagliente per un istante, una trasparenza momentanea dei suoi problemi a casa, un'eco lontana di battaglie non sue. "Varco sotto il Duomo? Altri mondi? È la classica 'cazzata' da adulto per non dirti che semplicemente non sa cosa sta combinando, o che il suo progetto fa acqua da tutte le parti e non ha più i fondi per comprare i sensori fighetti. Oppure si è inventato tutto per giustificare perché non c'è mai e passa le notti in laboratorio." Si appoggiò indietro sulla sedia olografica, un gesto di stanchezza che non combaciava con l'energia febbrile del gaming. "Non dargli retta, Giu'. È roba loro. La realtà è questa: liceo, voti, sto cavolo di futuro che ci tocca. E 'Cosmic Breach', ovviamente. Non farti fregare la testa da queste storie, non sono affari nostri. Tanto, alla fine, sono sempre e solo 'cazzate'. Fidati di me." Le sue parole calarono su Giulio, pesanti e definitive, non solo per la loro durezza, ma perché sminuivano la gravità di ciò che aveva sentito, riducevano la paura dei suoi genitori a una banale questione lavorativa o a una bizzarra invenzione paterna. E in quel momento, con lo schermo di Massimo che proiettava un'indifferenza tagliente, Giulio si sentì terribilmente, irrimediabilmente solo, il suo segreto cosmico ridotto a un capriccio infantile agli occhi dell'unica persona con cui aveva osato condividerlo.

Giulio sentì le parole di Massimo come un colpo sordo, non fisico ma penetrante, capace di incrinare quella fragilissima bolla di speranza che si era formato nell'osare condividere il suo segreto. La delusione era amara, più del previsto. Non era solo che Massimo non gli credesse; era il modo in cui aveva liquidato tutto, riducendo l'indicibile paura del padre a una banale scusa per il lavoro o a una fantasia da gamer. Era la stessa sufficienza che a volte il suo amico usava per proteggersi dal mondo, ma questa volta era diretta contro qualcosa che toccava il nucleo della sua sicurezza, la sua famiglia. Il suo viso si contrasse appena, un movimento involontario che lottava contro l'impulso di urlare o di chiudere subito la connessione. Non c'era modo di fargli capire, non in quel momento, forse mai. Il peso del segreto, per un istante condiviso e quindi leggermente alleggerito, tornò a schiacciarlo con una forza rinnovata, reso ancora più opprimente dalla solitudine che derivava dall'essere così profondamente incompreso. Con un nodo alla gola, Giulio chiuse il canale con un clic discreto, senza rispondere all'ultima frase tagliente. L'immagine olografica di Massimo si dissolse nell'aria, lasciandolo solo nella sua stanza illuminata dalla luce fredda degli schermi. L'aria, prima piena del ronzio del dialogo digitale, sembrava ora più pesante e amplificava il silenzio, un silenzio rotto solo dal battito accelerato del suo stesso cuore. Aveva bisogno di fuggire da quel silenzio, da quel peso. Aveva bisogno di muoversi.

Si alzò con uno scatto brusco, come per scrollarsi di dosso le parole di Massimo e la paura invisibile. I suoi occhi chiari, ancora un po' arrossati, si posarono sull'armadio smart. La palestra. Era l'unico luogo dove il corpo prendeva il sopravvento sulla mente, dove la fatica muscolare poteva forse soffocare l'ansia e i pensieri ossessivi. Indossò l'abbigliamento sportivo hi-tech, tessuti intelligenti che si adattavano alla sua corporatura atletica con un leggero fruscio, e lasciò che il suo visore proiettasse direttamente nei condotti uditivi del cranio la sua playlist ad alta energia, un muro di suono elettronico potente e ritmato, studiato per isolare e concentrare. Era un gesto automatico, una routine di evasione. Ma sotto la superficie della routine, il peso di ciò che aveva scoperto, o sentito, non se ne andava. Le parole sbrigative di Massimo non avevano scalfito la realtà della paura del padre, quella paura viscerale che un sedicenne riconosce anche se non ne comprende la causa. C'era un varco sotto il Duomo, una cosa che non doveva aprirsi completamente, e la vita che conosceva, quella fatta di scuola, gaming e cene in famiglia, era in pericolo. La palestra era un rifugio fisico, un'ora di sforzo brutale per non pensare. Forse, per un po', lì dentro, poteva dimenticare i varchi dimensionali e le menti artificiali, e concentrarsi solo sul dolore controllato dei suoi muscoli. Si lasciò alle spalle la stanza, pronto a immergersi in un altro tipo di realtà, quella dei pesi e del sudore, sperando che l'affaticamento fisico potesse temporaneamente zittire il tumulto nella sua testa.

(Continua nei prossimi post)

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