venerdì 22 agosto 2025

Il varco di Firenze - Puntata 13

La navetta blindata lo riportò verso il cuore della città in un silenzio tombale, più pesante di qualsiasi interrogatorio. L'aria all'esterno sembrava più fredda, l'ombra dei palazzi più scura, e ogni ronzio lontano gli perforava il cervello, un tamburo che anticipava la resa dei conti. Quando il veicolo si fermò con un sibilo sommesso davanti al suo palazzo, Vittorio sentì le gambe tremare. Il profumo familiare dell'attico di Coverciano, di casa, di quella normalità che un tempo dava per scontata, contrastava violentemente con la tensione che gli stringeva la gola. Varco la soglia, e l'immagine del volto pallido di Eloisa, gli occhi marroni spalancati dalla paura, gli fu come un pugno nello stomaco.

Si lasciò cadere sul divano, le spalle curve, il respiro irregolare. "Eloisa," mormorò, la voce quasi inudibile, rotta da una stanchezza che non era solo fisica. "Sono... sono venuti." Le spiegò tutto, con un fiume di parole che uscivano a fatica, la gola secca come sabbia. Descrisse la base militare asettica, gli occhi di ghiaccio degli Agenti Morandi e Costa, la loro conoscenza incredibile delle anomalie nei dati, i loro algoritmi predittivi. Le raccontò della velata minaccia sui "risultati applicabili" di De Santis, e poi, la voce che si abbassava in un sussurro carico di terrore, le parole precise con cui Morandi aveva classificato tutto come "segreto di stato di massima urgenza", le implicazioni per la "sicurezza nazionale", la minaccia di "conseguenze estremamente gravi" per lui e per chiunque coinvolto indirettamente, persino un minimo tradimento. "Sanno," concluse, con un filo di voce. "Non sanno del tempo, non credo. Ma sanno che c'è qualcosa di enorme, e lo vogliono. E ci stanno monitorando da mesi, Eloisa. Ogni dato, ogni nostra mossa. Siamo... siamo sotto il loro controllo." I suoi occhi verdi, annebbiati di orrore, si posarono su di lei con un'implorazione disperata. "Questo... questo segreto non deve uscire di qui. Mai. E soprattutto," aggiunse, la sua voce che si fece ancora più flebile, il peso della protezione paterna che lo schiacciava, "Giulio non deve sapere nulla di questo. Nulla di quello che è successo oggi. Non deve sapere di loro. È troppo pericoloso. Lui è già ferito... non possiamo caricarlo anche di questo peso. Dobbiamo proteggerlo, a qualunque costo."

Le parole di Vittorio si smorzarono nell'aria satura di un terrore palpabile, e su Eloisa caddero come macigni, schiacciando ogni residuo di speranza che ancora le covava nel cuore. I suoi occhi marroni, fino a un istante prima spalancati in un'espressione di orrore attonito, si riempirono improvvisamente di lacrime lucide che iniziarono a scivolare silenziose lungo le guance pallide. Un gemito soffocato le uscì dalla gola, un suono rauco che era un misto di disperazione e paura viscerale. Si portò le mani al viso, coprendolo, come per nascondere la sua debolezza o per sfuggire alla vista di un mondo che si stava sgretolando sotto i loro piedi. Il suo corpo fu scosso da singhiozzi silenziosi, le spalle che tremavano sotto il peso di quella realtà inimmaginabile: suo marito, l'uomo che amava, era prigioniero di un segreto cosmico che aveva attirato l'attenzione di poteri oscuri e implacabili. La loro casa, il loro rifugio, non era più un porto sicuro ma una fortezza assediata, i suoi muri trasparenti agli occhi vigili di agenti senza volto. La normalità, quel fragile bozzolo che avevano costruito con fatica, era stata lacerata, e ora, ogni giorno, avrebbero dovuto vivere con il fiato sospeso, sapendo di essere osservati, ogni loro respiro misurato, ogni parola ascoltata, intrappolati in una ragnatela di sorveglianza e minacce.

Vittorio la osservava, il cuore stretto in una morsa di colpa e angoscia, ma proprio mentre le lacrime di Eloisa gli trafiggevano l'anima, un pensiero freddo e implacabile si insinuò nella sua mente, più agghiacciante di qualsiasi minaccia degli agenti governativi. Giulio. Le lacrime del figlio, il mattino, la sua vulnerabilità esposta dall'amico. Quel ragazzino di sedici anni, con la sua ingenua ricerca di sfogo e comprensione, era ora l'anello più debole della loro catena di segreti. Massimo e gli altri, con la loro curiosità beffarda e la loro inconsapevole crudeltà adolescenziale, non erano solo un fastidio; erano un vettore di divulgazione, una crepa nel loro muro protettivo. Se Giulio, in un momento di rabbia o frustrazione, avesse lasciato sfuggire anche un solo frammento del loro segreto – un accenno al "varco", alle "menti artificiali", o peggio, alla presenza degli "Agenti Morandi e Costa" – sarebbe stato un disastro. Il ricordo delle risate e delle battute sarcastiche a scuola, riducendo l'orrore del varco a un gioco virtuale, si mescolava al terrore della sua reale e terrificante pericolosità. Non si trattava più solo di proteggere Giulio dalla paura del fenomeno; si trattava di proteggere tutti loro dal pericolo che Giulio, seppur involontariamente, avrebbe potuto scatenare, compromettendo la loro già precaria sicurezza e attirando su di sé l'attenzione spietata di chi, nel buio della burocrazia statale, li stava già osservando.

Eloisa iniziò a pingere singhiozzando, prima silenziosamente poi in maniera più ampia, scuotendo le sue spalle in un tumulto di disperazione che Vittorio conosceva fin troppo bene. Si strinse le mani sul grembo, il viso coperto, un gemito soffocato che le squarciava la gola, ma la mente di Vittorio, pur lacerata dal dolore di Eloisa, era prigioniera di un'urgenza ancora più fredda e spietata. La consapevolezza che gli agenti non avessero ancora compreso la natura temporale del varco era una magra consolazione; il vero terrore risiedeva nella crepa che si era aperta nella loro fortezza di segreti, quella crepa che Giulio, con la sua ingenua ricerca di sfogo, aveva involontariamente esposto. "Eloisa, ti prego," disse, la sua voce incrinata ma con una fermezza d'acciaio che non ammetteva repliche, e le posò una mano sul braccio, un gesto che era più per ancorarla alla realtà che per consolarla, "c'è qualcosa di ancora più immediato, di più spaventoso di quanto tu possa immaginare, che riguarda Giulio. Non possiamo permettere che la sua sofferenza si trasformi in un pericolo maggiore. Ha parlato con il suo amico Massimo, l'hanno deriso, per loro è 'roba da videogiochi'...". I suoi occhi verdi si fecero di ghiaccio, la stanchezza sostituita da una determinazione feroce. "Questo, Eloisa, non è un semplice litigio tra ragazzi. È la nostra più grande minaccia. È un virus che può propagarsi e distruggerci tutti."

Ignorando il corpo tremante di sua moglie, la voce di Vittorio si fece più cupa, quasi un sibilo, dipingendo un quadro agghiacciante di ciò che una semplice, inconsapevole divulgazione avrebbe potuto causare. "Quegli agenti... Sanno già troppo. Sanno che qualcosa di anomalo, di incomprensibile, si agita sotto la Cupola. Hanno intercettato i nostri dati, monitorano ogni nostra mossa. Se anche una sola parola, un solo frammento di ciò che Giulio ha sentito da noi – il 'varco', i 'mondi', l'intelligenza artificiale che 'ragiona in modi che a noi sfuggono', o peggio ancora, la nostra stessa conversazione sulla loro presenza – dovesse arrivare alle loro orecchie, anche filtrata da battute da ragazzi o da uno scherzo, sarebbe la fine. Non è solo che lo prenderebbero in giro, amore mio. È che la loro leggerezza, la loro inconsapevolezza, potrebbe esporre Giulio a un pericolo reale, a un controllo che non possiamo neanche immaginare. Trasformerebbero la sua ingenuità in un punto debole, in una breccia per trovarci, per capire cosa sappiamo realmente. La loro beffarda curiosità, il loro cinismo adolescenziale, è una minaccia più concreta di qualsiasi paradosso temporale. Non possiamo permetterlo. Dobbiamo assicurarci che lui non parli più, che non condivida più nulla di tutto ciò. Mai. Ora siamo soli, Eloisa, completamente soli. E ogni passo falso, ogni parola di troppo, ogni risatina innocente che rimbalza tra i corridoi del liceo, può distruggere tutto. Te, me, Giulio... e la stessa Firenze." La gravità di quelle parole calò sulla stanza, un peso insopportabile che annullava ogni possibilità di conforto, sostituendo le lacrime di Eloisa con un silenzio di terrore paralizzante.

Per fortuna, Giulio non era in casa quando le figure minacciose si erano materializzate nel salotto, un piccolo miracolo che aveva risparmiato al ragazzo l'orrore di quella scena. Ma l'attesa del suo rientro era stata per Vittorio un'agonia sottile, ogni ronzio di navetta lontana un richiamo all'incubo che lo attendeva. Quando il discreto "clic" della porta d'ingresso annunciò finalmente il suo arrivo, Vittorio, che aveva passato gli ultimi minuti in un silenzio teso con Eloisa, sentì un'ondata di adrenalina gelida. Giulio comparve nel corridoio, i capelli mossi leggermente inumiditi dal sudore, l'abbigliamento sportivo che gli aderiva alla corporatura atletica, l'aria stanca ma, per un attimo, apparentemente più leggera di quella che aveva lasciato. I suoi occhi chiari, però, pur senza il velo di lacrime della mattina, portavano ancora l'ombra di una chiusura. "Giulio," disse Vittorio, la voce che si sforzava di essere normale, seppur roca dalla tensione. "Come stai? Com'è andata la palestra?"

Il ragazzo si strinse nelle spalle, un gesto abituale di noncuranza, ma che questa volta tradiva una reticenza più profonda. "Bene, papà," rispose, evitando lo sguardo del padre mentre si dirigeva verso la sua stanza, quasi a voler fuggire da una domanda implicita. Ma Vittorio non poteva permetterglielo. "Giulio, aspetta," lo richiamò, e il tono, seppur sommesso, era intriso di un'urgenza che lo fece fermare. "Senti... riguardo a quello che è successo in questi giorni a scuola. I tuoi amici... hanno continuato a prenderti in giro? Per... per quella storia?" Il silenzio che seguì fu pesante, rotto solo dal ronzio quasi impercettibile dell'aria condizionata. Giulio esitò, poi si voltò, i suoi occhi chiari che finalmente incontravano quelli del padre, e in essi Vittorio vide un lampo di delusione e un'amara consapevolezza. "No, papà," mormorò Giulio, la voce più bassa. "Ho... ho detto loro che era tutta una cavolata. Che me l'ero inventata. Un gioco. Che l'avevo letta in un romanzo ologrammatico e me l'ero sognata. Che eri tu che eri stressato per il progetto e io avevo frainteso tutto." Si strinse ancora nelle spalle, quasi a scrollarsi di dosso il peso della menzogna, ma anche il dolore per aver rinnegato una parte di sé. "L'hanno bevuta. Massimo... mi ha anche dato una pacca sulla spalla, mi ha detto di non farmi prendere in giro da 'certe fisime da adulti'. Hanno fatto qualche altra battuta stupida, ma poi è finita lì. Si sono stufati." Vittorio sentì un'ondata complessa di emozioni: un sollievo gelido che il segreto fosse, per il momento, rientrato nella sfera della loro famiglia, ma anche una profonda fitta al cuore per il figlio, costretto a rinnegare la propria percezione, a mentire per proteggerlo, a sopportare da solo un peso che non avrebbe mai dovuto affrontare. Per Giulio, forse, la tempesta del ridicolo era passata, la ferita bruciava meno, e la realtà si era ricomposta nella rassicurante finzione. Per Vittorio, invece, quella "soluzione" era solo l'ennesimo fragile strato in un castello di carte che minacciava di crollare, un segreto condiviso con suo figlio, ma celato al mondo, e soprattutto, agli occhi penetranti di chi li stava già osservando nell'ombra.

(Continua nei prossimi post)

Nessun commento:

Posta un commento